Questa serie è il primo capitolo di una ricerca mossa dalla curiosità di rintracciare nel presente corrente, altri presenti che da migliaia di anni accadono similmente, per spirito, credenza e talvolta costumi, in diverse zone del globo. Riti in cui gli umani si travestono di maschere per mostrarsi al di fuori della propria carne, in luoghi dove le maschere ancora non sono lasciate alla sola apparenza, e dove il tempo esiste di meno. Non sono un accademico. Con questa premessa lascio di seguito alcune considerazioni ed informazioni derivanti da letture, esperienze, conversazioni, e in parte da sensibilità propria, senza la quale tutto sarebbe vano. Le foto raccontano già da se, ma così come una maschera senza musica e contesto rischierebbe di apparire solo come un umano con vestiti inusuali, una foto senza parole, rischierebbe di essere per alcuni solo un’immagine. Ho iniziato dalla Bulgaria un tempo terra dei Traci che la popolavano attorno a 2500 anni fa, la cui eredità culturale si aprezza tutt’oggi in particolar modo nelle maschere dei kukeri, ai quali sta il compito di propiziare l’anno nuovo. La propiziazione storicamente segue le dottrine appartenenti all’Orfismo, filone filosofico-religioso, così chiamato in riferimento ad Orfeo, missionario in terra tracia per diffondere il culto di Apollo, e ucciso dalle bacanti (le seguaci di Dioniso) dopo che esso rifiutò un loro invito orgiastico per rispettare la promessa che fece nel non amare nessun’altra donna, dopo aver fallito nel riportare la sua amata Euridice dal Tartaro al mondo dei vivi. L’importanza storica dell’Orfismo dipende dal fatto che esso si pone come la prima idea duale di carattere filosofico-religioso, ovvero un movimento che contempla il corpo mortale, ma anche un demone immortale, l’anima, la quale mitologicamente è riconducibile a Dioniso, che cadde nella Titanomachia per mano dei Titani che lo ammazzarono nella sua prima incarnazione divina, Zagreo. Una delle versioni del mito orfico narra che Zagreo – dio del cielo dei Traci; figlio di Persefone e Zeus, venne nominato dallo stesso Zeus suo successore come re di tutti gli dei. Era, moglie di Zeus irata per la decisione, si rivolse quindi ai Titani, che trassero in trappola il piccolo Zagreo con dei doni, lo fecero in 7 parti e ne mangiarono le carni; Solo il cuore rimase, Atena lo trovò, lo portò a Zeus. Quest’ultimo incenerì i Titani, dai cui resti nacque l’umanità, e mangiò il cuore di Zagreo, quindi si unì a Semele, da cui nacque Dioniso. Pertanto la dualità deriva dal corpo materiale generato dalle ceneri dei Titani, e dall’anima immortale, Dioniso. A questo si aggiunge la prima forma di beatitudine dopo la morte, che viene vista come una liberazione dell’anima dalla sua tomba, il corpo. Nella ritulità che vede protagonisti i kukeri, i riferimenti alla mitologia orfica si rintracciano spesso guidandone le tradizione nel tempo, assieme ad altre influenze più recenti; così come si ritiene che Zagreo fu fatto in 7 parti, 7 sono le folte pellicce caprine che tradizionalmente costituiscono il costume dei kukeri: una per ogni arto, due per il busto, e un’ultima per il capo. Anche se i tratti caprini, più che a Dioniso stesso, sono riconducibili ad un suo compagno, a Pan, il dio capro, e dio pastore - figlio di Ermes dio dell’inganno e Driope figlia di Driopo; nato barbuto, bicorne, dal piede caprino - così come narrato tra il VII ed il VI secolo a.C. nella seconda parte dell’Inno Omerico a Pan, il XIX dei trentaquattro Inni Omerici. Il nome, Pan, dal greco «πάειν» “pascolare”, riconduce alle origini agresti del dio, venerato e temuto nei pascoli e in tutti quei luoghi dove anche Dioniso trova casa: monti, boschi, luoghi impervi, luoghi naturali, luoghi difficilmente raggiungibili. Dioniso e Pan, il primo anima dei mortali, a rappresentare la vegetazione, l’estasi, la liberazione dei sensi; mentre il secondo – figlio dell’inganno; il bestiame, il panico, l’impeto, le pulsioni, gli istinti, la natura delle cose, di cui temuta è la sua presenza e venerata è la musica suonata attraverso la siringa (altresì il flauto di Pan) che lontana si fa udire dagli uomini, seducendo, terrorizzando, ma anche permettendo di raggiungere la sfera divina. Di queste due figure, si compone la ritualità “carnevalesca” che vado cercando. E’ con la musica invisibile delle zurne e dei tamburi in lontananza che inizia la mia attesa al rito nella piazza di Polena, alle 7:30 della mattina del 1 Gennaio 2024. Perché fossi proprio a Polena, me lo chiedevano un po' tutti coloro che incontravo nel paese; i riti riguardanti i kukeri, oggi appartengono soprattutto alla regione di Sofiya, nel sud-ovest bulgaro. Documentandomi mi annotai alcuni riti di alcuni paesi attorno a Blagoevgrad, così una volta in Bulgaria, mi sarei diretto in quelle zone a cercare e capire il resto. A Polena ci capitai curiosando, il 31 Dicembre. Mi fermai immediatamente dopo aver visto ad asciugare al sole in un giardino due piccoli costumi da kukeri. Polena è un paese molto piccolo, di circa trecento abitanti, a pochi kilometri dal confine macedone, con i tipici tratti di un piccolo paese balcanico: poche linee rette, un aspetto rurale, un pò decadente, ma senza incuria, i bordi della strada marroncini per via del sale e della ghiaia contro il ghiaccio, e fumate bianche che serpenteggiano fuori dai camini delle case, mentre i Balcani tracciano l’orizzonte. Intuì subito che era ciò che cercavo, una piccola comunità, dove probabilmente la ritualità non si sarebbe dispersa come è più facile avvenga oggigiorno nelle città più grandi - in balia della dissacrante influenza occidentale-moderna; e dove avrei potuto meglio apprezzare e coglierne i particolari e le varie fasi del rito. Lungo la strada incontro un uomo intento a pulire parte della strada, gli chiedo informazioni sulla “festa”, comunichiamo un po' in inglese un po' con il traduttore; presto veniamo interrotti da una ragazza che capisce la mia provenienza e mi parla in italiano – lei vive e lavora in Italia ma è di Polena; poco dopo dalla finestra di una casa lì vicino, una signora, Yulia, ci chiede in bulgaro, di cosa stiamo discutendo, poi capisce, e con entusiasmo mi intima di aspettare là, a breve sarebbe arrivato Spasko, suo figlio, anche lui vive e lavora in Italia e si sarebbe dovuto travestire per la festa il giorno seguente. Spasko è un ragazzo sulla trentina di anni, mi spiega che qui a Polena in tanti vivono e lavorano in Italia prevalentemente come camionisti con base a Ravenna, ma tutti ogni anno ritornano al paese per la festa, per organizzarla e per mascherarsi – lui sarà parte del gruppo degli scherzi nelle retrovie del corteo, si tratta delle maschere più satiriche nei confronti di questioni politiche, popolari, statali, o locali, e per alcuni sono le figure più di valore sociale nella cultura del rito, poiché mutano nel tempo, e rispecchiano l’attualità. Conosco subito Smilen, padre di Spasko, un uomo anziano, che parla solo bulgaro, comincia subito a raccontarmi a voce e a cenni che anche lui da giovane era un kuker, mi porta dentro casa, mi mostra vecchie foto dei riti di 50 anni addietro. Spasko mi chiama, e andiamo nel cortile di una casa la vicino – è la casa di Veselin Topuzov, il sindaco di Polena - anche lui sarà uno dei kukeri. Nel giardino il fratello di Spasko, Radoslav, e gli altri amici del suo gruppo (in ogni cittadina ci possono essere più gruppi di travestimenti, ogni gruppo con kukeri e altre maschere), stanno rifinendo i costumi caprini. Mi spiegano che i costumi vengono rifatti o modificati ogni anno, e che ogni kuker confeziona il proprio costume da sé. Mi ritrovo in questo cortile curato, con una piscina blu interrata e vuota, attorno statuette di ceramica con animali esotici e non, mentre bambini, adulti, camionisti e non, pettinano le lunghe ciocche caprine dei costumi, applicando olio per capelli, così da rendere quanto più morbide, lisce e svolazzanti le pellicce. L’odore dell'animale veglia sulla rifinitura, ed io osservo, affascinato, e lieto di poter assistere a ciò a cui speravo di attendere. Alla fine del giardino c’è una casa in legno, con una lunga tavolata, una serie di campanacci rituali (così come in varie culture le campane scacciano gli spiriti maligni), ed un camino, quella in riferimento alla tradizione rituale potrebbe essere “la caverna” ovvero il luogo dove i membri del gruppo si riuniscono nei mesi prima della “festa” – si dice a partire dalla prima nevicata dell’anno; per organizzare e prepararsi al tutto. Saluto, vado a pranzo dalla famiglia di Spasko, e torno a Blagoevgrad. 1 Gennaio 2024, 7:30, piazza di Polena. Non c’è nessuno in strada, soltanto io, sono in anticipo. L’imbrunire mattutino si accenna all’orizzonte, il fiato condensa, il silenzio sussurra una musica strumentale non molto distante. Poco dopo incontro Spasko ed i suoi amici di ritorno dal cenone, eleganti e provati. Mi dicono di aspettare là. Non passano dieci minuti, che arriva una macchina con quelli che saranno i musicisti del rito: due suonatori di zurna, ed un tamburo a tracolla. I tre sono in abiti borghesi; senza proferire parola, con una sigaretta già accesa, iniziano a suonare, e dopo qualche minuto in lontananza vedo arrivare una sagoma scura ed imponente, è il primo Babukar (nome dialettale per chiamare i kukeri), danzante – ripenso alle fasi iniziali della tragedia greca, e le scorgo anche qui; il coro dionisiaco, qui in forma di trio strumentale, anticipano l’entrata in scena della maschera. Con la loro assordante ed avvolgente musica, portano già l’animo dei partecipanti nella sfera dionisiaca, così che all’entrata in “scena” della rappresentazione dello spirito della natura, agli occhi non risulti di vedere un uomo mascherato che avanza nel silenzio di un desolato paese balcanico, ma bensì un’immagine di ciò che altrimenti sarebbe invisibile, l’immagine dello spirito abitata dallo spirito stesso. L’incantesimo avviene, tutto non pare aver bisogno di spiegazioni, tutto è giustificato dalla disinvoltura e naturalezza della scena. Il babukar tiene in mano quella che sembra una spada rossa di legno – in riferimento alla mitologia non si tratterebbe di una spada ma di un fallo, simbolo di fertilità e prosperità, quello che, secondo alcuni, nel mito orfico viene definito metaforicamente come “il cuore di Zagreo” in quanto esso organo della vita e della prosperità. Nel giro di poco, il primo gruppo è completo, ci sono: 3 kukeri, l’orso ed il suo domatore, il prete, e i musicisti. Per quanto riguarda le altre maschere, esse si ritiene siano frutto delle influenze culturali, religiose, storiche che si sono susseguite nel corso dei millenni. La situazione per me è tanto affascinante quanto surreale, sono attento, stregato e felice di osservare ciò che stavo cercando. Davanti a me continua quell’incantesimo drammatico, del mascherarsi per mostrarsi, non è una parata, non è nemmeno un credo, è naturale, quanto lo è un umano, così lo è uno spirito, di cui l’umano stesso è parte. Salgo in macchina, andiamo alla fine del paese, qualche kilometro verso la macedonia dove vi è la prima, o l’ultima abitazione di Polena. La musica non si interrompe mai, i kukeri danzano e per primi varcano le soglie delle abitazioni, accerchiano i membri della famiglia ballandovi attorno, percuotendoli senza far del male, con “la spada di legno” ed i costumi, si scaccia il maligno, si raccolgono le offerte, cibo, alcol, e denaro (volto a coprire i costi della festa e delle prossime); ai kukeri succede l’orso ed il suo domatore, e quindi per ultimo il prete a dar l’ultima benedizione e a riscuotere le ultime offerte. La maschera del prete cristiano è curiosa nel contesto di un rito con riferimento “panico” e dionisiaco, dove tramite la maschera si mostra la natura originaria dell’uomo, nella figura del Satiro (Pan), e in cui si abbandonano i doveri morali dati dall’illusione quotidiana di civiltà – come scrive Nietzsche; lasciandosi alle pulsioni, e all’inebriazione, cercando di perdere il “sé” lasciando popolarsi da Dioniso e da Pan, ma non dal Dio nell’assoluta ed esclusiva forma cristiana; il Cristianesimo, non contempla nulla di simile, anzi rese la figura del Satiro come ciò da temere maggiormente, lo rese il male estremo, in quanto esso le pulsioni dell'uomo, la tentazione, rendendolo così Satana da esorcizzare e da temere, non qualcosa da liberare, ma di cui liberarsi. Rifletto e penso che il sentimento di sorpresa per questo connubio, non è altro che essere vittima delle regole, stilate ed imposte nelle epoche; forse c’è da stupirsi se si è ligi cristiani, ma altrimenti penso che c’è solo da esserne entusiasti nel vedere vicine due figure storicamente in antitesi, la convivenza culturale e religiosa, la multi spiritualità, l’abolizione di regole sul come percepire lo spirito sono ciò che a mio avviso dovrebbero essere la normalità e non un caso eccezionale, dal momento che tutto ha come comun denominatore, la coscienza. Se nel Cristianesimo avviene l’esorcismo dei demoni, in quanto essi forma estrema dell’abbandono alle pulsioni, nel Dionisiaco così come nelle altre religioni dove la perdita del “sé” è contemplata e celebrata, si ha l’opposto, ci si concilia con essi e con il proprio demone, perder”si” e ritrovar”si” in determinati momenti di liberazione, e non di repulsione. Il rito procede periodico di casa in casa, e man mano si aggiungono maschere o abitanti, il fervore si fa sempre più vivo, si crea un vero e proprio corteo, nessuno è spettatore, tutti sono parte della festa indipendentemente che si indossi o meno una maschera, o che si sia anziani, o bambini. Il gruppo degli scherzi, si popola ed intrattiene nelle retrovie. Mi fanno indossare un calzone bagnato di acqua e sapone, e mi fanno pulire la strada. Ogni tanto ci si ferma per una pausa, anche se in passato, stando ad altre testimonianze, si era ferrei nel non fermarsi mai, e nel non scoprirsi mai, tanto che nessuno doveva far sapere la sua identità da cittadino mentre era mascherato; un tempo in oltre i climi erano diversi, me lo dicono in molti, fino ad una decina di anni fa era molto raro trovare una giornata soleggiata e tiepida come quella di quel giorno, mentre la consuetudine prevedeva neve e gelo, climi migliori per vestirsi di 7 pelli di capra poi non così leggere. Si beve vino locale e grappa, si mangiano salami fatti in casa, salsicce e pancetta, cotte nel retro di un carro trainato da un asino, si balla e più passano le ore più si è collettivamente inebriati e disinvolti. Non mi sento poi così forestiero, e nemmeno per loro lo sono più, si parla, spesso in italiano (dato che circa metà del paese ha lavorato o lavora in Italia), si fa amicizia e si discute. Livio, mi dice che dell’Italia gli manca soprattutto la frittura di pesce, ma che non ha mai capito come mai la grappa la beviamo alla fine della cena e non prima della cena, prima si beve e poi si mangia, e si beve anche mentre si mangia. Io gli do ragione, quindi brindiamo e poi mangiamo. Livio mi presenta a tutti coloro che incontriamo, e ribadisce in quanti a Polena abbiano un legame con l’Italia. L’accoglienza delle persone e l’empatia che scorgo in loro, mi rendono felice, non si è diversi, soprattutto in questo giorno. Al tramontar del sole, siamo tornati alla piazza, dove si balla in cerchio tenendosi per mano e dove si conclude la festa. La musica continua, e si ultimano le abitazioni rimaste, poi si continua a bere e a mangiare. Sono le 19:00 siamo di nuovo nel cortile dove il giorno prima ormai così distante, si stavano preparando i costumi; è buio, e tutti sono felici e stanchi, si terminano le ultime danze, passandosi e ballando gli ultimi passi di horo, indossando la parte superiore del costume da kukeri del fratello di Spasko. Il paese e le strade notturne colorate di arancione dai lampioni, odorano ancora di capra. Ancora una volta sono ospite a casa della famiglia di Spasko, mi lasciano una stanza, mi stendo sotto 4 coperte sprofondando velocemente nel sonno. I giorni seguenti li passo a Sofia, metabolizzando quanto vissuto, e cercando tracce di questo folklore in pitture e letterature di artisti bulgari, del secolo scorso e del fiorente rinascimentale del paese, che gli fece guadagnare il soprannome di “miracolo balcanico”. Vedere e leggere di scene riguardanti quanto ho visto nei giorni passati mi porta ancor più immerso nell’illusione temporale. Coloro che ho incontrato riconducono le prime memorie dei riti riguardanti i kukeri a non più di 70 anni fa; scopro più tardi che durante il regime comunista, attorno gli anni 50, ci fu un vero e proprio proibizionismo delle maschere, successivamente interrotto poiché se n’è riconosciuta l’importanza culturale, e probabilmente anche l’importanza politica di non privare un popolo di qualcosa che giova alla sua vita. Mi rendo conto che molti di coloro che ho incontrato e conosciuto, non conoscono appieno le origini arcaiche ed i riferimenti mitologici così ben conservati nella ritualità di cui loro stessi sono parte fondamentale, ma non ne sono stupito – quante volte un turista ha saputo dirmi qualcosa che non sapevo della cultura da cui provengo e che quotidianamente vivo; è come se tutti coloro che ho incontrato, sono stati, sono e saranno una sorta di incubatrice culturale e spirituale, perfetti conservatori di tradizione e tempo; e infondo lo spirito è questo, vive e si manifesta nel corpo dei suoi ospiti, quando nacque non aveva cognizione del passato, poiché era solo presente, e anche ora vive in quanto presente infinito, non ha bisogno di esser conscio del suo passato per esistere, per comprendersi nelle sue parti essenziali, continua a manifestarsi per quel che è e che sarà, ricordando che il tempo non è poi così definibile, così come non lo è la realtà e così come non lo è la finzione. Ciò che nel rito muta, sono le parti che riflettono il mondo fenomenico, poiché non è lo spirito a mutare, ma è quell’illusione di civiltà, a cambiare. Per quanto riguarda la catarsi dionisiaca, probabilmente nessuno ha raggiunto uno stato di trance totale, ma ai miei occhi è parso che: dodici ore di danze, musiche, fumi dell’alcol, disimpegno dalla vita quotidiana, e contemplazione dello spirito della natura, unione collettiva senza distinzione alcuna di età, genere, classe e provenienza; abbiamo portato ad una situazione dove l’essere individuale si è dissolto o comunque sufficientemente sfumato, per ricordarsi e ascoltare che si è tutti parte, e attraversati da quel spirito immortale. Penso che fin quando nel essere umano ci sarà ancora una sensibilità sufficiente a percepirsi nella sua vera condizione di elemento parte del mondo naturale - sensibilità che non ha necessariamente bisogno di cultura o sapere, ma solo di dialogo e attenzione; e non come spettatore del mondo, così come il rito si forma sì di maschere per mostrarsi, ma anche di coloro che si disimpegnano della routine senza indossare alcuna maschera e ballando anch’essi senza starsene nella timidezza morale a bordo strada o dietro una transenna, ma lasciandosi all’inebriazione e ai sensi, allora forse la ritualità, la spiritualità, la convivenza tra umano-umano / umano-natura / coscienza-spirito, potranno ancora esistere, e forse l’essere umano potrà ancora “essere”.